Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Marò: il capitolo conclusivo sul caso della Enrica Lexie

di Roberta Barberini
già Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione

La decisione del tribunale arbitrale che ha riconosciuto l’immunità ai due marines non può, propriamente, considerarsi una vittoria della parte italiana e presta, inoltre, il fianco a critiche, come osservato dal giudice dissenziente. 

1.

Con la decisione del tribunale speciale arbitrale sul grave episodio che ha visto la morte di due cittadini indiani,  si è conclusa una vicenda che aveva spropositatamente  risollevato  l’orgoglio nazionale degli italiani ed addirittura causato  le dimissioni di un ministro degli esteri.

Il risultato è  quello tenacemente perseguito dall’Italia, per vie non sempre limpide:  la sottrazione al  giudizio delle autorità giudiziarie indiane  dei due marines, già  da tempo, peraltro,  fisicamente sottrattisi . 

Sotto il profilo processuale, tuttavia, la decisione sulla controversia  che  ha visto contrapposte Italia ed India , non può, propriamente, considerarsi una vittoria della parte italiana. 

Non solo perché l’Italia è stata condannata a compensare la parte indiana in relazione alla morte  dei due cittadini, oltre che a vari danneggiamenti  e a danni morali causati  all’equipaggio della piccolo peschereccio  St Antony.

Ma anche perché è stato ritenuto infondato l’argomento principale di parte italiana, coltivato tenacemente già di fronte alla  autorità giudiziaria indiana.  Esso poggiava, come è noto, sull’art. 97 della Convenzione delle Nazioni Unite  sul diritto del mare (Montego Bay,  1982) , che  attribuisce la giurisdizione esclusiva allo stato di bandiera di una nave, in relazione ad «incidenti» occorsi a bordo, in acque internazionali o rientranti, come in questo caso, nella  zona economica esclusiva. 

Il tribunale ha, sul punto, aderito alla tesi sostenuta da sempre dall’India, secondo la quale  la giurisdizione esclusiva dello stato di bandiera deve ritenersi limitata agli «incidenti di navigazione» che coinvolgono una nave, e non era questo il caso.

Le due opposte tesi sulla applicabilità dell’art. 97 rappresentavano, anzi, propriamente, i principali  termini della controversia, come inizialmente prospettata avanti alle autorità giudiziarie indiane, sì che indubbiamente, si trattava  di «controversia relativa all’interpretazione o alla applicazione  delle norme stabilite dalla Convenzione» (art. 288 della Convenzione di Montego Bay), idonea ad attivare, ai sensi dello stesso articolo,   il meccanismo vincolante di risoluzione delle controversie previsto nella parte XV dello strumento. Esso prevede, appunto, che, con il consenso  di tutte le parti coinvolte, uno degli organi indicati all’art. 287, fra i quali vi è precisamente il tribunale speciale arbitrale, assuma  una decisione vincolante sull’interpretazione delle norme rilevanti. 

 

2. 

L’India aveva , quindi, prestato  il consenso  a devolvere al tribunale arbitrale, ai sensi appunto dell’art. 288,  le uniche questioni di attivabili  sotto tale  meccanismo, e cioè quelle fondate sulle disposizioni della convenzione stessa.

Una volta esclusa, tuttavia, dallo stesso tribunale, l’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 97, non era scontato  che esso potesse estendere la propria giurisdizione al tema, appartenente al diritto internazionale consuetudinario,  della immunità funzionale dei marines. In effetti, la  Convenzione di Montego Bay prefigura la possibilità di ricorrere ad uno dei tribunali elencati nell’art. 287 per  risolvere controversie relative solo alla propria applicazione, e non alla applicazione di un principio consuetudinario generale.  

Era , qui, in discussione la stessa giurisdizione del tribunale e quindi la sua legittimazione  a decidere la controversia.  

L’obiezione – coltivata da due giudici su cinque - è stata superata dalla maggioranza con l’argomento, addotto da parte italiana, che il riferimento, contenuto nell’art. 2 della convenzione,  ai «diritti e doveri di altri stati», fosse sufficiente ad operare un rinvio al diritto internazionale generale e quindi anche alle norme del diritto consuetudinario in materia di immunità funzionale. Il tribunale ha quindi ritenuto, forse un po’ sbrigativamente, la propria giurisdizione.

 

3. 

Data tale premessa, e ricondotta, pacificamente,  la morte dei due indiani ad azione  dei due italiani,  la controversia è stata decisa  a maggioranza di tre su cinque con il  riconoscimento ai due marines dell’immunità funzionale di diritto consuetudinario internazionale, in virtù sia della  loro qualifica personale che  di quella della missione che stavano svolgendo. 

Si trattava di una missione compiuta nel quadro della CSDP dell’Unione (Common Security and Defence Policy), e precisamente una missione EUNAVFOR Somalia. I militari italiani erano un  VPD (Vessel Protection Detachement ) team. Non era, pacificamente, una missione militare.

Il tribunale ha precluso all’India l’esercizio della giurisdizione, cosa diversa dal difetto di giurisdizione , formula che  si sarebbe imposta in caso di riconoscimento all’Italia  della giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 97 cit.  

Una volta esclusa l’applicabilità dell’articolo 97, era, questa, l’unica strada che consentisse di sottrarre  i   militari italiani  al giudizio dell’India : essi non potevano, in effetti, avvalersi di accordi specifici in materia di immunità, come quelli che solitamente accompagnano le  missioni militari.[1] 

 

4.

Il tribunale da quasi per scontato che un   principio consuetudinario sulla immunità funzionale   effettivamente esista , cioè si sia consolidato, in campo penale . Il punto  va sottolineato : qui si parla di immunità dalla giurisdizione penale dell’India. 

Non vi è elencazione di precedenti o prassi: l’assunto  viene  fondato su una decisione del tribunale per la ex Jugoslavia e sui lavori della International Law Commission su uno strumento in tema di  immunità degli organi dello stato. E’ vero , comunque, che né il  giudice dissenziente, né  la stessa India controbattono l’affermazione.

Un approfondimento sul punto  sarebbe stato opportuno:  la categoria dell’immunità funzionale, infatti,  è ben lungi dall’aver trovato nella prassi  sistemazione unitaria e la stessa dottrina è, sul punto,  divisa.

Una  parte della dottrina internazionalistica ritiene che  il principio dell’immunità funzionale dell’organo dello Stato estero si sia  consolidato anche in campo penale.  Anche qui, tuttavia,  come nel settore civile, il principio opera  solo in rapporto ad atti compiuti nell’esercizio delle funzioni proprie dell’organo, e sempre che  si tratti di funzioni jure imperii. La  tesi dell’immunità dell’organo si poggia, infatti,  sulla riconducibilità allo Stato dell’atto compiuto da costui e quindi sulla sostanziale identificazione dell’immunità dell’organo con l’esenzione dalla giurisdizione straniera di cui godono gli Stati. 

E’, questo, uno dei punti  deboli della tesi:  come è stato osservato, non esiste, infatti, una  immunità penale dello Stato, perché  solo  l’individuo  è destinatario di norme penali. L’immunità funzionale è più ampia di quella dello Stato – che è limitata al settore civile - e dove la prima eccede non può trovare sostegno, anche  solo argomentativo, nella seconda. 

L’esistenza del principio consuetudinario in campo penale è stata ritenuta  dalla cassazione, nella sentenza  (Sez. I, n. 31171/2008) che riconobbe  l’immunità funzionale al militare statunitense Lozano, in relazione all’omicidio, avvenuto in Iraq, dell’agente dei servizi italiani  Nicola Calipari. La pronuncia, che rappresenterà un precedente non facilmente  superabile nel procedimento italiano  contro i  marò – quantomeno sotto il profilo della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere - fu da taluni criticata,  e   successivamente smentita dalla sentenza confermativa della condanna degli agenti della CIA, nel processo Abu Omar. 

Questo repentino cambio di posizione, da parte della cassazione, è un esempio delle forti disomogeneità che sembrano emergere nella prassi giurisprudenziale internazionale, quando manca una espressa previsione pattizia. Non a caso  la stessa cassazione, nel caso Calipari,  menzionò due soli precedenti di tipo penale. [2]

Si contano, sì, numerose decisioni in materia di immunità penale di capi di stati esteri, ed infatti questa è l’unica categoria sulla quale un principio consuetudinario si è certamente consolidato. Ben diversa , tuttavia, è la situazione:  in questo caso si tratta di  immunità personale, a carattere meramente processuale, legata  allo status dell’individuo che ne beneficia e non alla condizione di organo. [3] 

Per quanto concerne , in particolare, la categoria dei militari o soldati,  cui appartengono i due marines, la prassi sembra essere  nel senso contrario a quello affermato dal tribunale:  anche con riferimento a condotte poste in essere – e non è questo il caso – nel corso di un conflitto armato, è ben noto come sin dai tempi antichi gli organi militari che cadevano nelle mani degli Stati nemici venissero comunemente processati per violazioni del diritto bellico, senza poter invocare a propria difesa la circostanza di aver agito per conto del proprio Stato. Neppure nei procedimenti per crimini di guerra aperti dopo la fine della seconda guerra mondiale  gli accusati cercarono  di difendersi sostenendo di aver agito nell’esercizio delle funzioni, e quando lo fecero l’eccezione non fu accolta (basti pensare al processo, svoltosi in Israele,  nei confronti di Adolf Eichmann).

In conclusione, la prassi in materia sembra essere  molto  eterogenea: la sottrazione dell’organo alla giurisdizione straniera per gli atti compiuti nelle funzioni di sovranità dello Stato è prevista in molti trattati . In assenza di essi, tuttavia, l’immunità , non risulta sia stata riconosciuta in un numero  apprezzabile di  decisioni, quantomeno in campo penale, ed anche nel settore civile l’ immunità viene riconosciuta direttamente allo Stato, più che al suo organo. Il tribunale, per affermare l’esistenza di una norma di portata generale, avrebbe, sembra, dovuto richiamare un adeguato numero di prassi, circoscritte, inoltre,  al settore penale. Non sembra, infatti,  corretto, da parte di un organo giudicante,  addurre, a conferma della esistenza di una prassi, la conforme opinione di pur autorevoli organi,  come la ILC. E’, questo, un ragionamento circolare

 

5. 

La parte più debole della decisione, e che probabilmente più sarà criticata dagli studiosi,  comunque, non è quella relativa alla esistenza del principio consuetudinario, ma  quella concernente la  sua applicabilità in concreto alla condotta  dei due marines. 

Qui il giudice Robinson ha avuto vita facile, nella opinione dissenziente.

Premesso che, come ricordato, il presupposto per il riconoscimento della immunità è che l’atto sia compiuto dall’organo nell’esercizio di funzioni sovrane, (perché  "par in parem non habet imperium")  la ricorrenza del requisito era ricondotta, da parte italiana: 1) alla qualifica astratta dei marines come "pubblici ufficiali della repubblica italiana"; 2) al fatto che essi  agivano  in base alla legge n. 130 del 2 agosto 2011, adottata dal Parlamento per dare esecuzione alle Risoluzioni di contrasto alla pirateria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Essi, invero, «stavano difendento una nave petroliera italiana in esecuzione di un mandato dello stato italiano diretto ad assicurare la sicurezza in mare in un’area ad alto rischio di pirateria».

Ciò bastava senz’altro, per l’Italia,  a qualificarli  come  organi dello Stato italiano nell’esercizio di funzioni jure imperii.  

La tesi italiana è stata puntualmente accolta: il tribunale ha concordato sul fatto che  i due marines fossero,  anzitutto,  pubblici ufficiali e precisamente militari appartenenti alla  marina italiana, nonché  «ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria incaricati della difesa marittima dello Stato», così come sostenuto da parte italiana;  che, inoltre, le condotte tenute  il  15 febbraio 2012 fossero espressione di tale pubblica funzione: essi agivano infatti,  in quel momento, sia  come ufficiali della marina italiana, che  come agenti di polizia giudiziaria con riferimento a reati legati alla pirateria.

Né il fatto che fossero collocati su una imbarcazione commerciale, anziché su una nave da guerra, né il fatto che, sparando contro l’imbarcazione ed uccidendo due pescatori, avessero agito ultra vires, e cioè in modo contrario ai loro ordini ed istruzioni, inficiava, secondo il tribunale, tale conclusione.

 

6. 

Saranno gli studiosi di diritto internazionale a commentare in modo approfondito il punto che ha deciso la controversia. 

Qui ci si limita ad osservare che un militare esercita le proprie funzioni solo nel corso di un conflitto armato e, inoltre, solo quando compie atti tipici del combattimento. Ciò non sembra possa dubitarsi. 

Quanto all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, chi conosca l’ordinamento italiano in questo settore non può che smentire sul punto gli stessi rappresentanti  della parte italiana: va in effetti escluso che [4] possa attribuirsi   ai militari componenti dei Nuclei Militari di Protezione della Marina, la qualifica di agenti di polizia giudiziaria abilitati a perseguire in alto mare i reati di pirateria. Gli stessi strumenti internazionali, a cominciare dalla convenzione di Montego Bay, abilitano a catturare le navi pirata soltanto navi o aeromobili da guerra o comunque chiaramente appartenenti ad un servizio governativo  o autorizzati a tale scopo. Nella protezione di  una nave commerciale da atti di pirateria, il militare non agisce  jure imperii da organo dello Stato.

E’  questo, infatti, che dice il giudice Robinson: «Deve ricordarsi che i marines furono assoldati dal proprietario di una petroliera per rendere un servizio dietro pagamento e rifusione dei costi. Il servizio reso a queste condizioni è tutto fuorchè un servizio governativo non commerciale, come sostenuto da parte italiana. In tale situazione, non ricorrono le condizioni essenziali previste dal diritto internazionale per riconoscere l’immunità dalla giurisdizione straniera. Ove personale militare stazioni o visiti un altro paese, l’immunità può essere reclamata solo se c’è un accordo tra lo stato di origine e quello ospitante. Nel caso di specie, l’Italia non aveva stipulato alcun accordo con l’India volto a coprire i marines».    

 
[1] Un accordo di questo tipo è ad esempio il  SOFA  (Status of Forces Agreement) stipulato nel 2004  tra i membri della forza multinazionale e il governo iracheno.  

[2] Uno che risaliva al 1847 ( il  caso Mc Leod concernente la distruzione del vapore Caroline che portava aiuti agli insorti canadesi); l’altro - la sentenza della Corte internazionale di giustizia nell’affare Gibuti c. Francia -  riguardi un caso in cui la Corte dell’Aja non accolse, in realtà, le pretese di Gibuti.

[3] Va detto che nei  confronti della stessa categoria dei capi di stato la prassi in materia di immunità è  comunque  assai limitata . Il primo della storia recente  fu il procedimento di estradizione verso la Spagna del generale Augusto Pinochet, ex Presidente della Repubblica del Cile, svoltosi di fronte alla House of Lords britannica tra il 1998 e il 1999, dove l’immunità dell’estradando fu riconosciuta in linea di principio, ma negata nella decisione finale in applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. House of Lords, Regina v. Bartle and the Commissioner of Police for the Metropolis and Other, Ex parte Pinochet,  24 marzo 1999.

[4] Come osservato da Orlando Villoni su questa rivista in La vicenda dei marò italiani in India, 13 marzo 2013.

24/07/2020
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